A cura di Stefano Zampieri - Consulente Filosofico

lunedì 25 luglio 2016

Una prima conclusione

Qual è la mission del Filosofo Praticante? Io la riassumerei in questo modo:
- creare e far crescere SPAZI DEL PENSIERO, in ogni luogo, quartiere, scuola, asl, azienda, biblioteca, partito, sindacato, centro sociale, ospedale, carcere, università, condominio, famiglia, coppia, singolo;
- ripensare, cioè mettere in questione,  il nostro essere-al-mondo, in tutte le sue forme, dunque nelle dimensioni dello spazio e del tempo vissuti, nella dimensione dei rapporti, degli stili di vita, in funzione degli atti e delle decisioni della nostra esistenza singola e associata, come individui e come cittadini (scegliere, valutare, votare, amare,ecc.), nel complesso quella che ne dovrebbe emergere sarebbe una vera  e propria FILOSOFIA DEL QUOTIDIANO;
- coltivare una aspirazione generale alla SAGGEZZA, da intendere in forma minima: una visione delle cose che si suppone migliore di quella del senso comune.

Tutto ciò configura forse le coordinate di una PROFESSIONE? Potrebbe certo, se si offre un servizio a singoli o a una comunità si ha anche il diritto di chiedere una remunerazione.
Tuttavia a questo punto subentra la mia valutazione personale: il mio percorso filosofico non è mai stato disgiunto da un'esigenza critica, e da una istanza morale. Sono giunto alla conclusione che, laddove sia possibile, diventi anche necessario e urgente dare dei segnali relativamente alla possibilità di un diverso approccio all'economico. Laddove vi sia lo spazio io credo che sia giusto sperimentare forme di attività estranee alla logica mercantile, eversive rispetto alle dinamiche del denaro, più vicine alle forme della solidarietà (mettere insieme le risorse), o del dono (dare senza contropartita), o del riconoscimento (restituire senza obbligo).  


13 commenti:

  1. In generale gli esseri pensanti non sono funzionali al mercato, perchè ogni buon saggio comprende ed elimina il superfluo, vita dura per la dottrina filosofica; nello specifico ogni maestro che apre la mente di chi si predispone, merita rispetto, onore e anche un congruo riconoscimento economico.ml

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  2. Grazie Stefano, questa tua presa di posizione permette di fare chiarezza.
    In senso stretto, infatti, io non condivido nessuno dei tre punti che elenchi:
    - non vedo ragioni per assumermi la mission di creare spazi di pensiero "ovunque"
    - quella che chiami "filosofia del quotidiano" è solo una piccola parte delle cose che mi interessa comprendere e neppure per me la più interessante
    - non ho alcun interesse per la "saggezza", o comunque non ho intenzione di confondere con la saggezza la processualità del filosofare.
    Ma, seguendo le tue parole, questo non mi pare per niente problematico: io, infatti, non mi sono mai ritenuto un "filosofo praticante", ma solo un filosofo senza aggettivi che ha aperto un studio (Praxis) nel quale, su richiesta di altri e con la loro collaborazione, affronta filosoficamente problemi come professione. Una professione particolare, che in Italia abbiamo chiamato "consulenza filosofica", non asettica e che richiede determinati valori e certe caratteristiche anche personali, ma non quelli/e che tu elenchi.
    Direi quindi che si possa affermare - sempre seguendo le tue parole - che si può filosofare su richiesta (cioé fare i consulenti filosofici) senza essere "filosofi praticanti" e, mi pare, anche essere "filosofi praticanti" senza fare i consulenti filosofici.
    Non vedo problema, se non quello di distinguere chiaramente le due cose, che significa forse anche distinguere chiaramente la consulenza filosofica dall'attività generale del "filosofo praticante", cioé quella che chiami "pratica filosofica" (che non ho sinceramente mai capito bene cosa sia e che le tue parole adesso mi permettono almeno di intuire).
    E, in effetti, sono ormai diversi coloro che - sottovoce - dicono che la consulenza filosofica NON SIA una "pratica filosofica". Io, di fatto, l'ho sempre detto (anche se forse in modo poco chiaro), perché ho sempre sostenuto che la consulenza filosofica sia "filosofia e nient'altro", cosa che non ho mai detto per le cosidette "pratiche".
    Questa potrebbe essere finalmente una via per chiarire questo confuso campo, anche a livello internazionale, e dirimere tante incomprensioni e tanti conflitti.

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  3. Anche se condivido l'esigenza posta da Neri di "difendere" specificità e professionali(zzabili)tà della "consulenza filosofica", temo che la via suggerita da Neri per "chiarire questo confuso campo", nella sua apparente semplicità, sia tutt'altro che accettabile da tutti.
    Forse, paradossalmente, potrebbe esserlo da Stefano, a condizione che Stefano "prometta" che quello che farà d'ora in poi, nei suoi "spazi filosofici", sia tutt'altro che "consulenza filosofica".

    Ma anche questo immaginario "accordo" tra Neri e Stefano lascerebbe fuori un po' di gente:
    a) coloro che pensano, legittimamente, di esercitare "pratiche filosofiche" (come p.e. i café philo) facendosi pagare almeno per il tempo messo a disposizione e che, quindi, rivendicano almeno a certe pratiche carattere professionale (discorso a parte se ciò sia legittimo da parte di chi può vantare "solo" un riconoscimento come "consulente filosofico" di "Phronesis")
    b) coloro che, meno legittimamente, a mio parere, rivendicano il diritto di erogare consulenza filosofica gratuitamente (ricordo che "Phronesis", che per oggetto la c.f. come attività professionale, ammette la tariffa minima di un euro, per segnalare appunto, attraverso questo pagamento simbolico, che si tratta pur sempre di "attività professionale")
    c) coloro che, come Augusto Cavadi, a prescindere dalla questione del riconoscimento economico, sostengono che la consulenza sia una pratica filosofica (una forma di "filosofia-in-pratica" nel lessico cavadiano) tra le altre

    In realtà la questione del riconoscimento economico e quella del rapporto tra consulenza filosofica e altre pratiche stanno su piani diversi e andrebbero discusse a parte.

    Personalmente, per quanto riguarda il riconoscimento economico, pur riconoscendo, con Stefano, la "diversità" del c.f. da ogni altro professionista e il suo ruolo "critico" verso il "sistema" (in quanto filosofo), non mi scandalizza un ragionevole scambio di denaro, magari differenziato a seconda delle possibilità del cliente, come propone Benasayag (che, tuttavia, "vive" della sua professione e non opera gratuitamente SEMPRE, perché deve pur sempre mangiare).
    Per quanto riguarda il rapporto tra c.f. e altre pratiche, come già accennato, mi sembra tanto assurdo confonderle quanto affermare che non hanno alcun rapporto l'una con le altre (vi dedico una sezione intera, la 7.5, del mattone di quasi 800 pagine che avete buttato da qualche parte, forse nel ripostiglio...). Possiamo parlare di aria di famiglia? Senz'altro. Sono tutte "filosofiche" con la stessa intensità? Assolutamente no...

    Infine, tornando alla tesi di Neri, secondo me più che sostenuta "in generale" va riferita all'oggetto sociale di "Phronesis" come associazione professionale. Le difficoltà oggettive a promuovere la professione non possono essere un alibi per farle cambiare "pelle" magari a colpi di maggioranza (e in barba a chi ha investito tempo e denaro per formarsi a una professione). Altra cosa è accettare un eventuale "allargamento" del suo campo di interesse (alle pratiche e ad attività non strettamente professionali) che, senza impedire a chi vuole esercitare la professione di c.f. di esercitarla, sia adeguatamente motivato e giustificato dal punto di vista "teorico" (attingendo p.e. agli argomenti miei o di Cavadi) o dal punto di vista della promozione della c.f. (nell'ipotesi, più o meno convincente, che le altre pratiche possano fungere da "avvicinamento" alla c.f.).

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  4. Forse, Giorgio, sarebbe meglio che ti limitassi a leggere le cose scritte, invece di interpretarle alla luce di seconde intenzioni (presunti "accordi" tra me e Stefano) o "accettabilità" da parte di terzi. Per una volta ci sono infatti posizioni chiare, con presupposti chiari. Non sei il solo ad aver scritto su somiglianze e differenze tra CF e Pf, anche i miei articoli e le mie "sezioni" di libri sono state buttate nel ripostiglio: bisognerà riprenderle in mano tutte e vedere cosa sta insieme e cosa no, senza fare proprio nessun "accordo diplomatico" ma facendo invece i filosofi, una buona volta.
    Da quel che abbiamo scritto io e Stefano non segue né che non sia legittimo fare pratiche facendosi pagare, né che uno non possa fare CF senza farsi pagare, ma solo che - stante i presupposti che Stefano pone - il "filosofo praticante" non coincide con il consulente filosofico e, quindi, neppure la "pratica filosofica" coincide con la consulenza filosofica. Tutto qui. Per chi ci legge non si tratta tanto di essere d'accordo o in disaccordo, ma di sostenere sensatamente che le cose non stanno così. Per esempio sostenere o che ai presupposti minimali che io assegno al "filosofare professionale su richiesta" manca qualcosa, oppure che a quelli un po' meno minimali richiesti da Stefano per il "filosofo praticante" c'è qualcosa di troppo.
    Due osservazioni su quel che dici di contenuto, Giorgio.
    1. La smetterei di parlare di "aria di famiglia": Stefano, anni fa, mostrò come anche tra psicoterapia e CF ci sia un'aria di famiglia, ma questo non basta certo a far stare dentro Phronesis anche il counseling rogersiano o la logoterapia frankliana.
    2. Ogni allargamento professionale può avere una sua ragionevolezza, ma non si capisce proprio perché ciascuno non se lo possa fare altrove, invece che dentro l'associazione italiana per la CONSULENZA FILOSOFICA. Ma, di nuovo, una decisione su questo non ha senso sia presa su base consensuale, o quanto meno non prima di aver sviscerato la questione su piano epistemologico - quel piano al quale davano avvio le considerazione mie e di Stefano e che andrebbe proseguito prendendo in esame anche le molte riflessioni finite nel ripostiglio (anche a giudicare dal dibattito del fine settimana...).

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  5. Caro Neri,

    premesso che l'accordo "teorico" o "teoretico", nel senso dell' "homologìa" su cui si fonda il dialogo socratico (non il "compromesso" politico tra posizioni che restano divergenti), è parte costitutiva del "filosofare" (e così anche l'"accettabilità" o meno di una posizione da parte di chi ne sostiene [apparentemente] un'altra, cioè da parte di chi muove da [apparentemente] altri presupposti)...

    e premesso che le "cose scritte" sono costitutivamente ambigue e si prestano a diverse interpretazioni per loro natura (a me sembrava che, poiché Stefano difendeva un'idea di pratica filosofica "gratuita", tu un'idea di c.f. professionale, la "chiarificazione del campo" a cui plaudevi preludesse a una netta bipartizione del campo tra pratiche non professionali e consulenza professionale, le une non pagate e l'altra sì... chiedo venia dell'equivocazione)

    sono senz'altro... d'accordo con te (ops!), per RAGIONI teoriche (che non ho semplicemente modo qui di sviscerare, ma per le quali ti rinvio al mio vecchio articolo su c.f. e professione, in parte rifuso in "Platone 2.0") sul tuo punto 2 (la c.f. è una professione e, come tale, dovrebbe essere l'oggetto privilegiato o finanche esclusivo di "Phronesis") [prendi e porta a casa, perché temo che saremo ormai in due o tre a sostenere questa posizione nell'associazione, adesso "politicamente" parlando, ma un'associazione professionale in cui si vota a maggioranza è un'entità "politica" in sensoi lato... ].

    Non sono invece d'accordo, se l'ho inteso bene (ma la scrittura è ambigua), sul fatto che la c.f. non sia una pratica filosofica (e viceversa), perché (vogliamo evitare di parlare di "aria di famiglia"?) anche in base al tuo bellissimo schema di cerchi concentrici (che ho ben presente e che ho anche evocato nel mio libro), la c.f. sembra proprio una pratica filosofica, anzi (secondo te subito dopo la filosofia accademica!, punto sul quale dissento) forse LA pratica ("Praxis") filosofica per eccellenza, rispetto alla quale le altre, quanto più hanno finalità extrafilosofiche, tanto meno sono pratiche filosofiche, ma "ibride" (come vedi ti cito e lo faccio abbondantemente anche nel libro con entusiasmo filiale).

    Nel mio lessico, dunque, il filosofo "vero" sarebbe colui che fa il consulente o, comunque, intrattiene dialoghi filosofici (o "colloqui" per usare il lessico di Stefano), a pagamento o meno, come faceva Socrate.
    Poiché è invalso chiamare "filosofi" gli accademici e gli scrittori (come Heidegger ecc.), mi rassegno a chiamarlo "filosofo praticante", cioè che fa quello che dice di essere, colui che "fa filosofia" con qualcun altro, oralmente.
    Secondo me è tale in modo eminente il "consulente" per le circostanze in cui opera. Non escludo che possa esserlo il conduttore di gruppi nell'ambito di "spazi di pensiero", ma, come hai scritto anche tu, bisognerebbe "sviscerare la cosa dal punto di vista epistemologico".

    Direi che può bastare. Altrimenti Stefano, di cui stiamo infestando il blog, ci caccerà a pedate....

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  6. Carto Giorgio, effettivamente dovremmo trovare un altro spazio... Però una precisazione ci vuole.
    Non ho ancora letto il tuo libro, per cui non so come giustifichi la tua pretesa di dire chi sia il "vero" filosofo, ma da un lato la ritengo in se una pretesa assurda, dall'altro non sono in alcun modo d'accordo sulla conclusione. Stante cioé il fatto che non ritengo sia sensato dire quale categoria di sedicenti filosofi sia realmente tale e quale no (casomai si potrebbe forse cercare di capire quale "atto filosofico" sia tale, in funzione di cosa contiene), a mio parere i filosofi più eminenti sono i ricercatori astratti, perché sono coloro che apportano maggior numero di innovazioni creative e con le maggiori ricadute anche sul piano pratico - e questo del tutto indipendentemente dal fatto che "l'uomo della strada" se ne accorga o meno. Lo dimostra il fatto che gran parte dei "filosofi praticanti" non riescono a svolgere la loro attività senza far riferimento ai prodotti dei ricercatori astratti.
    Il mio "bellissimo schema a cerchi concentrici" da un lato ha il difetto di non essere stato di fatto adottato da nessuno (anzi, per fare un esempio Stefano l'ha proprio respinto, anche se a mio parere non dimostrato scorretto), dall'altro è del tutto compatibile con l'esclusione della CF dalle "pratiche filosofiche". Infatti quello schema dice esplicitamente che ANCHE LA FILOSOFIA ACCADEMICA (cioé la ricerca astratta, anche se non la storiografia filosofica) è una "pratica filosofica"; se si esclude quella, allora quasi automaticamente si esclude anche la CF, che le è uguale in tutto e per tutto, tranne nel fatto di svolgersi con non filosofi e su problemi di partenza non astratti. Già io osservavo che la differenza di TUTTE le cosidette PF differivano dalla CF per INTENZIONI e FINALITA' extrafilosofiche e, di solito, anche per l'impiego di "metodi" (schemi, format, pretesti, ecc.) che la CF non usa. Stefano, nelle parole di questo post, lo conferma, elencando tre punti qualificanti della PF che non sono necessari né alla CF, né alla ricerca astratta. Se quei tre punti si accettano, allora CF e PF vanno distinte; se non le si distinguono, quei tre punti vanno espunti anche dalla PF. Mi sembra semplice e chiaro, no?
    Un'ultima cosa: ti pregherei di smettere di usare "Praxis" come indicativo di "pratica", perché l'uso originario di quel termine nel nostro campo indica "professione" e non "pratica". Depuriamo il nostro linguaggio dalle ambiguità, altrimenti saremo sempre nel pieno di fraintendimenti.

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  7. Certo, purifichiamo il linguaggio.
    Siamo d'accordo che le cose a volte non sono quello che sembrano o quelle che vengono "dette" tali? Altrimenti uno che massacra venti persone in nome dell'Islam sarebbe islamico, uno che dice di fondare un "partito liberale di massa", ma si preoccupa solo di promuovere le sue aziende, sarebbe un "liberale" ecc.
    Tu stesso sembri suggerire, col tuo schema, che le "cosiddette" pratiche "filosofiche" siano meno "filosofiche" di quello che dicono di essere, almeno se si assume un determinato concetto di "filosofia".
    Io dico che quella "accademica" è meno filosofia di quello che sembra a partire da un concetto di filosofia evidentemente un po' diverso dal tuo, ma secondo me più autentico e profondo del tuo.
    Naturalmente ciascuna di queste "purificazioni" del linguaggio (di fatto scelte semantiche del tutto discutibili) dipende da un bel po' di presupposti che andrebbero a loro volta "disambiguati" in un verosimile regresso all'infinito (a meno che da qualche parte non si annidi un'intuizione, qualcosa dell'ordine dell'intelligenza piuttosto che dell'argomentazione).
    Ma qui stiamo entrando nel corpo del mio mattone per cui ti risparmio il resto...

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  8. Non è una questione di ricorsi all'infinito, ma solo di mettere a fuoco quali sono i presupposti. Se sono comuni, si usa un linguaggio comune e si fanno cose in comune, altrimenti si fa diversamente. Anche questo mi pare semplice. Un presupposto piuttosto chiaro della "svolta pratica" di Lipman e poi di Achenbach, per esempio, è che "filosofia=filosofare" e "filosofare=argomentare"; sulla base di questo presupposto, PER LA SVOLTA PRATICA E NON PER LA FILOSOFIA IN GENERALE, è "più filosofico" argomentare senza dare nulla per presupposto. Ma francamente non trovo sensato applicare questo principio e dire, per esempio, che Epicuro non era un filosofo perché applicava dottrine, e certo fatico a trovare un filosofo più filosofo di Spinoza, o Hegel, o Popper, vista la ricchezza delle loro argomentazioni, anche se le hanno messe per iscritto e - non per colpa loro - sono diventate "dottrine date e istituite". Mi fermo, perché il tuo libro non l'ho letto e non so come sostieni certe cose.

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    1. Ottimo Neri, uomo divino, o che tu non ti accorgi che "leggi" la "svolta pratica" a partire dai tuoi presupposti epistemologici che ti fanno sembrare "chiare" cose tutt'altro che chiare e, soprattutto, tutt'altro che semanticamente univoche? Che "fare filosofia" significhi "filosofare" mi sembra la sola cosa abbastanza "chiara" (anche senze evocare Lipman). Molto meno chiaro che "filosofare" significhi "argomentare", dal momento che l'arte dell'argomentazione (cfr. Perelman, Trattato sull'argomentazione ) deve molto più alla retorica che alla filosofia. Se tu rileggessi quello che scriveva un tale Pollastri (no, non Sante, proprio Neri) scopriresti che, purtroppo, per sapere che cos'è p.e. la "consulenza filosofica" (cioè, se intendo il lessico dell'"ultimo" Pollastri, la "filosofia dopo la svolta pratica") bisogna proprio interrogarsi su che cos'è la "filosofia", visto che "la consulenza filosofica è filosofia e nient'altro". E che questo "Neri" si riferisse proprio a TUTTA la filosofia, così come si è articolata storicamente a partire dai Greci, (e non a una fantomatica "filosofia dopo la svolta pratica") lo documenta il fatto che costui sostenesse che è impossibile una teoria della consulenza filosofica appunto perché è impossibile una teoria della filosofia (cfr. Id, La consulenza filosofica , Milano, Apogeo 2004, p. 19, cit. in Platone 2.0 ecc., pp. 417-18)...

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    2. Sospendo lo scambio perchè tra poco mi parte l'aereo. Dico solo una cosa: il "primo" Pollastri aveva meno esperienza dell'"ultimo" Pollastri, e comunque tu lo stai interpretando come ti pare (il capitolo centrale de "Il pensiero e la vita" dimostra la tesi che la filosofia socratica era pura argomentazione). I filosofi cambiano idea perché la ricerca va avanti. E Lipman intende CHIARAMENTE il filosofare come argomentare: era un logico e ha inventato la P4C per far apprendere la logica ai bambini. Tu la pensi diversamente? Fai benissimo. Però riconosci almeno che ti poni da un'altra parte rispetto alla "svolta". Magari fai un'altra svolta: sarai anche in buona compagnia, la strada del filosofare come argomentare nel mondo della "philosophical practice" è assolutamente minoritaria.
      Saluti, vado in vacanza

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  10. Comunque, Giorgio, credo che ci sia un fraintendimento preliminare. Tu scrivi:
    "Siamo d'accordo che le cose a volte non sono quello che sembrano o quelle che vengono "dette" tali?"
    Non siamo d'accordo, in effetti. Non lo siamo perché in filosofia non è così pacifico che le cose "siano" indipendentemente da quel che "sembrano". Uno che massacra 20 persone in nome dell'islam è quel che molti, sensatamente, dicono essere un islamico; puoi può essere un islamico pazzo, o un islamico che uccide per tutt'altre ragioni, ma resta il fatto che se non è un bugiardo puro e semplice dire che è islamico ha senso; idem per l'altro tuo esempio.
    Il problema, Giorgio, è che in filosofia si danno nomi alle cose, non si scoprono enti; e i nomi devono tener conto di presupposti, coerenza di assegnazione, convenzioni tra i parlanti. Si può dire "stai usando il nome in modo contraddittorio", oppure "in modo difforme all'uso comune", ma non "questo è l'uso VERO". Per questo mi paiono insensati i tuoi tentativi di dire cosa sia "vera filosofia" e che le cose "non sono quelle che sembrano".

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